21 set 2008

IL MARE IMMANE DEL MALE

Con Il mare immane del male. Saggio su Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, Gela, Cerro Edizioni, ottobre 2004, pp. 114, Marco Trainito, già autore di due volumi di argomento filosofico su Karl Popper e Ludwig Wittgenstein (entrambi editi dall’editore Dainotto di Gela tra il 2000 e il 2002), fa un’incursione nel campo della critica letteraria affrontando quello che Nino Borsellino, in un saggio recente dal titolo Teatri siciliani della storia. Da Sciascia a Camilleri, ha definito “l’opus magnum, la massima realizzazione creativa della sicilianità”.
Pubblicato per la prima volta da Mondadori all’inizio del 1975, dopo una tormentata e leggendaria gestazione quasi ventennale, e riedito da Rizzoli nel 2003, Horcynus Orca rappresenta infatti un caso pressoché unico di capolavoro assoluto condannato, in virtù della sua stessa misteriosa grandezza, a un isolamento finora inaccessibile al grande pubblico, e non solo fuori dall’Italia (per via della intraducibilità della peculiare lingua sperimentale in cui è scritto), ma anche presso gli stessi siciliani, che pure avrebbero la possibilità linguistica e culturale di affrontare proficuamente lo sterminato mare di pagine (oltre mille) del ‘difficile’ e grandioso romanzo del messinese Stefano D’Arrigo. Da questo punto di vista, il breve volume di Trainito rappresenta un’audace sfida divulgativa che, pur senza cedere ad inutili e banalizzanti semplificazioni, ma anzi proponendo piste interpretative inedite, intende avvicinare il grande pubblico a un’opera siciliana ancora troppo poco conosciuta, sebbene sia annoverata dagli studiosi più attenti tra gli esiti più alti della narrativa del XX secolo (insieme all’Ulisse di Joyce, all’Uomo senza qualità di Musil, alla Montagna incantata di Thomas Mann e a poche altre opere).
Il saggio è costituito da cinque capitoli e da un’appendice, ed è preceduto da un’appassionata introduzione di Silvana Grasso, forse l’unica scrittrice siciliana ad essere stata avvicinata a D’Arrigo per via della prosa esuberante, sanguigna e baroccheggiante dei suoi romanzi. Mentre i primi due capitoli consentono al lettore di prendere familiarità con il romanzo (il secondo, in particolare, contiene probabilmente la più dettagliata sintesi della sua ‘storia’ che sia mai stata tentata), gli altri entrano nel cuore di questioni interpretative più specifiche, relative, nell’ordine, alla “iper-lingua” del romanzo, analizzata in un confronto per contrasto con Camilleri (il terzo), al simbolismo dell’Orca alla luce dell’Orco greco-latino e del Leviatano biblico (il quarto), e al confronto filologico, con interessanti implicazioni filosofiche per la prima volta evidenziate, tra Horcynus Orca e I fatti della fera, cioè la bozza del 1961 edita per la prima volta solo nel 2000 (il quinto). L’Appendice è un vero e proprio omaggio a Gela, perché in essa Trainito, quasi come guardasse l’universo del testo dal buco della serratura di un semplice toponimo, propone una panoramica sullo sterminato romanzo e sui suoi contenuti metafisici a partire da una analisi del contesto in cui ricorrono, nel romanzo, le due menzioni esplicite della città di Gela.
Il romanzo, va ricordato, si svolge nell’arco di alcuni giorni del 1943 ed il teatro principale dell’azione è lo Stretto di Messina, ovvero lo “Scill’e Cariddi”, col suo carico di simboli di morte e distruzione risalenti a Omero e riesumati dagli orrori dalla seconda guerra mondiale.

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